Moda Circolare Trend e Business

Moda Circolare Trend e Business

Felice De Piano_fondatore Be Green Tannery

Secondo il Circular Fashion Report 2020, il business potenziale mondiale della moda circolare sarebbe il 67% in più rispetto all’attuale valore della fashion industry, fermo a 3mila miliardi di dollari. Inquinamento idrico ed energetico, produzione di rifiuti tessili e utilizzo di materiali non biodegradabili, resi e emissioni di CO2 sono solo alcune delle problematiche che la moda deve affrontare.Gli esperti del settore illustrano la ricetta per una vera “green revolution”

È di nuovo il tempo di settimane della moda. Fra le prime ad aprire le danze è stata la Copenaghen Fashion Week, nella quale il tema della sostenibilità è stato centrale: un action plan prevede una riduzione dell’impatto ambientale dell’evento del 50% entro il 2022 e 17 requisiti di sostenibilità da soddisfare entro il 2023 per essere inclusi nel calendario, tra cui l’impegno a non distruggere i vestiti invenduti, avere almeno il 50% di tessuti certificati, organici o riciclati e utilizzare solo imballaggi sostenibili. In generale, quello della moda circolare, è un fenomeno sempre più popolare: secondo il Circular Fashion Report 2020 il business potenziale del mercato è di 5mila miliardi di dollari, il 67% in più dell’attuale valore della fashion industry. Segnali di una maggiore sensibilità da parte dei consumatori arrivano anche da Instagram, dove l’hashtag #sustainablefashion conta quasi 10 milioni di post. Un grande traguardo se si pensa che, secondo la Banca Mondiale, il settore è responsabile del 10% delle emissioni globali annuali di carbonio, più di tutti i voli internazionali e del trasporto. Non solo, secondo una ricerca pubblicata su Nature Reviews Earth and Environment, ogni anno vengono consumati 1500 miliardi di litri d’acqua, i rifiuti tessili superano i 92 milioni di tonnellate, la lavorazione e la tintura dei tessuti sono responsabili del 20% dell’inquinamento idrico industriale e il 35% delle microplastiche negli oceani è attribuibile ai lavaggi dei capi in fibre sintetiche. Inoltre, la Ellen MacArthur Foundation stima che ogni anno si perdono circa 500 miliardi di dollari per indumenti che vengono indossati a malapena, non donati, riciclati o che finiscono in discarica. È quanto emerge da un approfondimento condotto su testate internazionali da Espresso Communication per Be Green Tannery, innovativa conceria con sede a Solofra (AV) e fondata nel 2018.

Alla base dell’European Green Deal, il modello di economia circolare rappresenta un punto di approdo essenziale per contrastare l’inquinamento e il cambiamento climatico. Un modello su cui Be Green Tannery punta fortemente: “Abbiamo a cuore la qualità del nostro prodotto e il futuro dell’ambiente, perciò pensiamo che intervenire con l’integrazione di un’economia sostenibile nel mondo della moda sia la soluzione ideale per un futuro più green e responsabile – commenta Felice De Piano, fondatore di Be Green Tannery – Dopo anni di ricerche e numerosi studi, abbiamo implementato un metodo di lavorazione che segue i principi della sostenibilità: il risultato è una diminuzione del tempo di produzione richiesto per la conciatura che passa da 36 a 24 ore, una riduzione dell’energia impiegata, 360 kW contro i classici 540, e una minore quantità di litri d’acqua necessari, 7mila in contrapposizione ai 10mila normalmente utilizzati. Inoltre, la nostra pelle, la prima ad aver ottenuto la certificazione di prodotto metal free dalla Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli, risulta molto più resistente, performante e green, in quanto l’assenza di metalli riduce l’impatto ambientale del ciclo produttivo”.

Ma come scegliere capi sostenibili? Secondo Orsola De Castro, pioniera dell’up-cycling, la regola d’oro è “l’indumento più sostenibile è proprio quello che si trova nel tuo armadio”. Affermazione che non stupisce se si pensa che il consumo globale di prodotti tessili è salito a circa 62 milioni di tonnellate all’anno, con un aumento previsto di 102 milioni di tonnellate entro il 2030. Tuttavia, una ricerca di Boston Consulting Group e Vestiaire Collective condotta su un campione di 7mila intervistati di 6 paesi, tra cui l’Italia, ha dimostrato come si stia cambiando rotta, puntando fortemente sugli abiti usati: entro cinque anni il mercato crescerà del 15-20%, passando dai 30-40 miliardi attuali a 64 miliardi di dollari nel 2024. Inoltre, il 60% degli intervistati dichiara di sentirsi particolarmente attratto da un marchio che si è prefissato obiettivi green, mentre il 31% vende i suoi capi per acquistarne di nuovi. In base al Resale Report 2020 di Thread Up, questa tendenza è guidata dalla Generazione Z: per l’80% dei nati tra il 1995 e il 2010 comprare vestiti usati è un’azione sdoganata, mentre il 90% valuta di comprare vestiti di seconda mano in caso di budget ristretto. Non solo il consumatore, però, fondamentale adattare un approccio globale all’economia circolare, azione che, secondo il rapporto Breaking the Plastic Wave elaborato da The Pew Charitable Trusts e SYSTEMIQ potrebbe ridurre il volume annuale di plastica nei mari di oltre l’80%, generare risparmi pari a 200 miliardi di dollari all’anno, ridurre le emissioni di gas serra del 25% e creare 700mila posti di lavoro entro il 2040.

La strada è ancora lunga, ma secondo gli esperti del settore, la direzione è quella giusta. Secondo Elena Cedrola, docente di Marketing e Management all’Università degli Studi di Macerata “Molte aziende si stanno impegnando in varie iniziative post-vendita come il riutilizzo, il riciclo e la rigenerazione, volte a creare valore anche dai capi d’abbigliamento dismessi. Anche innovazione di processo, studio di nuovi materiali di derivazione naturale e integrazione verticale, possono costituire elementi di spinta verso una rivoluzione green, rispettosa di culture e obiettivi d’impresa”. A confermare una maggiore consapevolezza delle aziende e dei consumatori è anche Ariela Mortara, docente di Sociologia dei Consumi all’UniversitàIULM di Milano: “È possibile immaginare che verranno premiate le aziende e i brand capaci di dimostrare il loro impegno sostenibile su più fronti, così come probabilmente, a fronte di una riduzione degli acquisti, ci potrà essere una rivalutazione dei capi di buona qualità, sia dal punto di vista dei materiali sia del design, capaci di sopravvivere al rapido turn over imposto dalla moda”. Infine, sul tema interviene Giovanni Maria Conti, docente di Storia e Scenari della Moda al Politecnico di Milano: “Anche i luoghi preposti all’acquisto cambieranno aspetto; forse potremo trovare prodotti da comprare al momento o da noleggiare anche solo per una riunione o una colazione; così come potremmo ricevere lì i nostri acquisti online e, perché no, trovare personale specializzato per la cura o la messa in misura di ciò che abbiamo comprato. Il cambiamento a cui tutti assisteremo, progettisti, imprenditori, professionisti e artigiani, credo che sia la più grande sfida progettuale del prossimo futuro”.

ECCO LE 10 TENDENZE CHE RENDERANNO LA MODA PIÚ SOSTENIBILE

1. economia circolare contro l’inquinamento: un approccio globale, oltre a diminuire il consumo idrico ed energetico potrebbe ridurre il volume annuale di plastica che finisce nei mari di oltre l’80%;

2. produzione tessile più sostenibile: attraverso un impianto di depurazione, le acque derivanti dalle lavorazione tessili nel distretto tessile di Prato, sono raccolte, depurate e rimesse nel sistema di produzione, attraverso un sistema di acquedotto industriale;

3. conceria sostenibile: la pelle prodotta da Be Green Tannery, certificata metal free, è realizzata attraverso un processo sostenibile che ne riduce l’impatto ambientale;

4. internalizzazione di tutte le fasi della supply chain: consente al distretto tessile biellese di controllare e certificare il reale impegno verso la sostenibilità;

5. sfilate green: l’action plan della moda danese prevede una riduzione dell’impatto ambientale delle sfilate del 50% entro il 2022 e 17 requisiti di sostenibilità da soddisfare entro il 2023;

6. mercato dell’usato: una ricerca di Boston Consulting Group e Vestiaire Collective ha dimostrato che entro cinque anni il mercato crescerà del 15-20% soprattutto grazie alla Generazione Z; 

7. maggiore trasparenza e tracciabilità della filiera: secondo una ricerca di Fashion Revolution, 7 consumatori su 10 chiedono che i brand pubblichino la lista degli stabilimenti produttivi;

8. utilizzo di fibre biodegradabili o ricavate da prodotti di scarto: tra i materiali sostenibili ci sono cotone organico, lana e plastica riciclate, fibre artificiali rinnovabili e canapa. A questi si aggiungono materiali come la pelle che vengono ricavati da prodotti di scarto;

9. limitare i resi online: secondo Appriss Retail, negli USA il costo dei resi è di 369 miliardi di dollari. L’obiettivo è ricreare l’esperienza del camerino a casa, limitando gli acquisti ad alto tasso di reso;

10. fashion renting: una tendenza sempre più popolare quella del noleggio di abiti e accessori che ha l’obiettivo di diminuire l’acquisto di capi d’abbigliamento dedicati soprattutto a particolari occasioni.

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