Una suggestione fortissima, anche se difficile da definire, si rivela immediatamente a chi varca la soglia di Dimora Palanca e potrebbe essere descritta come l’esprit del luogo ritrovato. E se questa, tuttavia, può sembrare una semplice impressione, un fattore oggettivo c’è ed è l’illuminato restauro conservativo dell’edificio ottocentesco che ospita il nuovo 5 stelle di Firenze (18 camere), frutto della grande capacità di visione dell’architetto e interior designer toscano di adozione Stefano Viviani.
Dimora Palanca, un palazzo ritrovato per la città e per una nuova visione di ospitalità, slegata dalla consuetudine alberghiera, un restauro conservativo dell’edificio ottocentesco che ospita 18 camere, frutto della grande capacità di visione dell’architetto e interior designer toscano di adozione Stefano Viviani.
Grazie a questo “ritrovamento”, la villa, edificata a ridosso della cerchia delle mura medievali, torna a far parte a tutti gli effetti della memoria storica della città con cui, ispirandosi alle proprie origini, attiverà a favore degli ospiti un discorso amoroso, ritmato dalla riconnessione con il genius loci e da una magnifica ossessione per l’arte: come avveniva in passato, raccogliendo l’eredità ideale della storia delle edificio e senza soluzione di continuità tra spazi interni e tessuto urbano, questo dialogo con Firenze declinerà il nuovo tempo del palazzo, portando letteralmente gli ospiti a scoprire una storia cittadina quasi sconosciuta. E con la nuova identità, la dimora tornerà a essere una delle “finestre” aperte sulla città e sulla sua dimensione di crocevia di incontri, passaggi e passioni.
Attraverso un attento percorso di ricerca, legato anche all’amore per questo luogo meraviglioso, registrato presso la sovrintendenza di Firenze nel repertorio delle architettura civili, ma che da oltre 30 anni versava in uno stato di abbandono, Viviani ha ritracciato l’impianto architettonico originario e lo ha riportato in evidenza dismettendo il rifacimento novecentesco e facendo riemergere la scansione tra i differenti volumi dello spazio, proprio come era stata voluta, a cavallo tra il 1865 e il 1871, dalla famiglia Palanca (da cui l’hotel ha mutuato il nome), committente e primo proprietario della villa.
Da alcune finestre si inquadrano la torre di Palazzo Vecchio e la celeberrima cupola del Brunelleschi, raggiungibili a piedi in circa 15 minuti: verso sera, quando la luce diventa morbida e dorata, la malia di sentirsi un po’ come dentro “Camera con vista” non è così’ difficile da sentire. E l’Arno non è poi tanto distante.
A Villa Palanca, tutto è stato curato seguendo una linea filologica tanto precisa quanto appassionata – per gli stucchi sono stati usati, per esempio, stampi fedeli ai disegni dell’epoca – da botteghe artigiane locali, capaci di far rivivere senza tradirli i fasti del periodo di costruzione della villa.
Al fine di rievocare per gli ospiti d’oggi l’atmosfera delle origini e di quel momento di straordinario passaggio, in cui Firenze fu capitale d’Italia, l’architetto ha puntato sulla ricreazione di una dimora piena d’incanto, pensata, come ai tempi della sua costruzione, per accogliere chi ama l’arte, la bellezza e l’ispirata espressione dell’ingegno umano.
Per comprendere appieno il senso più profondo di tutta la progettualità strutturale e abitativa dell’hotel va menzionato il rapporto con l’arte della famiglia Palanca, impegnata in attività di mecenatismo come molte nobili famiglie toscane dell’epoca, testimoniato dall’affresco nel soffitto della sala grande posta a piano terra, che contiene rimandi al mondo della musica, della pittura, della poesia e del teatro. La villa nacque, infatti, anche quale spazio d’elezione per ricevere e per condividere la passione per l’arte e dalla fine del 1800 divenne un punto di incontro per viaggiatori cosmopoliti e cultori dell’arte in arrivo a Firenze.
E come fecero i primi proprietari che catturarono lo spirito del proprio tempo così ha fatto Viviani attraverso la reimmaginazione degli spazi, in cui ha collocato elementi contemporanei, sofisticatamente understated, seppur ammantati dall’aura splendente di un design pieno di carattere e di poesia: i letti, le sedute, gli imbottiti, i tavolini di Antonio Citterio, Pietro Lissoni e di Naoto Fukasawa, il gigantesco lampadario di Marcel Wanders, che “parla” con i fiori di stucchi e affreschi nella sala delle colazioni; i complementi d’arredo, i vasi e le ceramiche di Paola Navone, le luci, solo per citarne alcune, di Castiglioni, Claesson Koivisto Rune, Magistretti, Starck e Anastassiades, disseminate con logicissima nonchalance; i pezzi disegnati e fatti realizzare in loco su misura, usando, per esempio, un materiale come la pelle, tipico della maestria artigiana fiorentina.
Nel fare questo, però, ha voluto fortemente creare al tempo stesso, con rara intelligenza e in forma di godibilissimo divertissement, un ponte con il passato, attraverso aree comuni come il salotto delle arti e il salottino degli scacchi.
Per dirla in poche parole, Dimora Palanca è moltissimo palazzo, nella sua cifra stilistica più essenziale, e molto poco albergo, con l’aspirazione di definire una nuova accezione di hôtellerie che parte proprio dalla visione e dalla progettualità degli spazi, nonché dal loro rapporto con il terroir di riferimento: sale pensate singolarmente e non camere standardizzate, aree comuni che sono l’esatto contrario di un non luogo, wellness da godere nell’intimità della propria dimensione privata, esperienze di scoperta del contesto di prossimità, la cucina gourmet dai piccoli numeri del ristorante Mimesi (tra i punti di forza dell’hotel, aperto anche agli esterni, e guidato dal giovane e ispiratissimo chef Giovanni Cerroni che vuole incontrare i commensali.