Dal 17 aprile al 1° ottobre 2023 è in scena negli spazi della suggestiva Ala Scaligera all’interno della Rocca di Angera la mostra d’arte contemporanea “Oltre il buio”, a cura di Alberto Salvadori e in collaborazione con Galleria Franco Noero.
Le opere di 15 artisti celebrano lo straordinario divenire della luce che, sin dalle origini dell’umanità, ha favorito una forma di convivenza tra uomo e natura, tra l’uomo e l’arte.
Centrale è l’evoluzione della percezione dell’uomo che attraverso la luce ha scoperto la necessità di vedere qualcosa che non fosse solo il visibile naturale ma bensì il visibile del nostro inconscio, della nostra parte imperscrutabile.
La Principessa Marina Borromeo Arese, responsabile dei progetti speciali di Terre Borromeo, afferma: “L’arte è sempre stata di per sé luce e bellezza che illumina la storia dell’uomo. Oggi nelle sale dell’Ala Scaligera si racconta il rito della rinascita, l’aspirazione verso un mondo ideale che ci conduce “oltre il buio”, in una cornice che unisce la ricchezza storica e quella contemporanea, in un luogo che ha radici antiche ma è proiettato verso il futuro”.
Un luogo, l’Ala Scaligera del castello situato sul versante lombardo del Lago Maggiore, che tra il 2015 e il 2017 è stato oggetto di un restauro conservativo voluto dai Principi Vitaliano e Marina Borromeo Arese e adibito ad esposizioni d’arte contemporanea.
Il percorso espositivo “Oltre il buio” si snoda tra le sale del castello, luogo simbolo dove dall’antichità l’uomo oltre a proteggersi cercava l’equilibrio armonioso tra interno ed esterno, tra natura e artefatto.
Le opere di luce di Mark Handforth, poste nella prima sala dell’ala del castello, in prossimità della tinaia, illuminano un luogo testimone vivo di un lavoro stagionale, di una cura quotidiana del prodotto e ci inizia ad un percorso dove il rapporto tra uomo e natura è manifesto e reso intenso dal dialogo tra esterno e interno, tra architettura e paesaggio, tra due rappresentazioni di maestosità che non nascondono comunque le loro fragilità. Tema questo anticipato dalla meridiana, rifugio e appoggio per gli uccelli del castello posta sulle mura esterne dell’edificio da Henrik Håkansson. Il rapporto con gli elementi della natura, già nell’epoca classica, nello straordinario De rerum natura di Lucrezio, era prerogativa della filosofia epicurea e distingueva nettamente tra chi in vita è mosso da illusioni inutili e dannose e chi possiede la dottrina dei sapienti, ed abita dunque i “templa serena”.
In riferimento all’antico testo letterario, il curatore Alberto Salvadori commenta: “Se continuiamo ancora oggi a leggere il De rerum natura, a provare piacere, meraviglia o sgomento scorrendone i versi, non è certo per il suo valore ‘scientifico’, bensì per la forza poetica delle sue immagini, e perché attraverso queste assistiamo al dispiegarsi di conflitti e contraddizioni le quali, pur rimanendo ben individuate all’interno della specifica realtà storico-culturale in cui sono stati scritti questi testi, mantengono tuttavia un valore esemplificativo ancora nei nostri giorni. Ecco che qui arriva la forza dell’opera a resistere al tempo, in particolare al suo tempo. Angera è un luogo che porta con sé tali qualità e la presenza di artisti al suo interno si raccorda e innesta in questo ineludibile percorso. Per questo a distanza di molti secoli Angera non cessa di parlarci, ci invita alla sua presenza e ospita fieramente opere e artisti persistendo nel suo essere ponte e viatico tra uomo e natura”.
La seconda stanza di questo percorso espositivo trasmette una riflessione fondata sulla concezione dello spazio, la rocca, inteso come protezione dagli altri uomini e dalla natura. Tre opere dialogano tra loro in termini apparentemente antitetici ma essenzialmente coordinati: Mike Nelson riassume in un assemblaggio rude e diretto, testimonianza di un’archeologia spontanea, legname destinato ad uso quotidiano, probabilmente da ardere. Una rappresentazione che esprime tutta la fatica della vita rurale e tutte le affascinanti spigolosità che essa può restituire. Le radici e tronchi di legno estratti e posti in termini di scultura appaiono così, crudi, nella loro essenza, allo stesso tempo fragili, poiché estratti dal loro contesto naturale. Algidi levrieri fotografati da Simon Starling affiancano e dominano questa catasta. Il tutto è tenuto assieme da un’immagine solitaria di fiori, piena della sensualità tipica della fotografia di Robert Mapplethorpe, che fissi rimandano alla caducità del tempo e della vita, rimanendo assorti nella loro bellezza.
Procedendo nel percorso, incontriamo l’esplorazione in canoa, sempre di Simon Starling che ci guida verso un assoluto ignoto nel quale possiamo rifugiarci in controcanto alla sicurezza di difesa ispirata dalla rocca. L’ascesa verso i piani alti dell’Ala Scaligera inizia con l’incontro dissacratorio di una scultura pensile, leggera e leggiadra di Jim Lambie, che ribalta la certezza dell’essere ancorati a terra.
La prima grande stanza di ambienti un tempo domestici e oggi destinati alla visita pone subito il visitatore in una relazione diretta tra interno ed esterno. Un richiamo floreale, una composizione dal sapore cortese, di Sam Falls, contribuisce assieme all’opera di Jason Dodge a instillare una prima quiete, un arrivo, un riposo, subito dopo il primo sforzo che aiuta, grazie ad una scultura fragile ed immediata di Henrik Olesen, Biology is Straight, a ricondurci alla verità del mondo naturale, grazie alla quale equivoci e interpretazioni faziose sono messi a tacere. Henrik Håkansson, nella sua opera a parete, trasforma il quadro in soggetto vivente e riverbera così in maniera assertiva e poetica come la natura possa liberamente appropriarsi o riappropriarsi di spazi dati o lasciati liberi dalla mano dell’uomo. In questa stanza ci poniamo in ascolto per quello che troveremo subito dopo.
Uno dei più importanti esploratori dell’altro, un artista fondamentale nell’aver contribuito alla conoscenza di altere forme di vita e civiltà diverse dalle nostre, Lothar Baumgarten, ci trasporta in un lontano, apparentemente fragile contesto, dove una capanna sembra fluttuare sul fiume delle nostre sensazioni. Le immagini di Robert Mapplethorpe ancora una volta cercano di creare un bilanciamento con la forza espressiva della scultura a terra e la trovano nel controcanto del reperto industriale simbolo di una mobilità e di un’epoca come il maggiolino dell’artista. Una piccola preziosa stoffa, un haiku, di Jason Dodge ci sposta ancora più lontano verso la Birmania, luogo prezioso e da sempre magnificato.
Al piano superiore, ecco la dicotomica presenza tra la sprezzatura dei disegni di Pablo Bronstein, dove il sentore della vita di corte emanato dall’amore dell’artista per il cavalier Castiglione e la sua trattatistica, presentata da un fantasmagorico calamaio, immerso e sommerso nelle acque nere di una lago immaginifico, convive e contrasta con la crudezza e gioiosità di Jim Lambie che trasforma in scultura il frutto del lavoro quotidiano, il prodotto prosaico e determinante per intere popolazioni, resistente ai climi più austeri, la patata. Tutto avviene non tanto con l’utilizzo del tubero stesso bensì con i sacchetti che le contengono per la loro distribuzione. Lambie colora con pigmenti pop, preziosi, industriali, questi sacchetti formando assemblaggi da parete, goffi e ironici allo stesso tempo, che ben si raccordano con l’eterea presenza di Jac Leirner e la sua scultura aerea creata da una pratica che affonda le radici negli anni ’80 e nella quale il quotidiano, nelle sue espressioni più anonime, diviene opera, scultura, oggetto risignificato.
La mostra si chiude in un dialogo tra l’albero che accoglie le persone di Lara Favaretto, i tappeti natura di Piero Gilardi e il ricamo da tombolo di Francesco Vezzoli, con soggetto una famosa tela di Fragonard, che dialoga con la classicità messa in gabbia come fosse un animale esotico. La natura entra direttamente nell’edificio e i materiali usati dagli artisti divengono antitetici agli elementi naturali che circondano la rocca facendo sì che non ci sia quella sparizione dell’espressione e del pensiero di un tempo come è stato nel passato quando si usava costruire tutto in legno o altri materiali deperibili.
Conclude Salvadori: “…con il passaggio della storia tutto è scomparso, un po’ come i fiori in natura con il passare delle stagioni. Rimane sempre quello che non si vede, il bulbo sottoterra, nel loro caso le mura delle città o le tombe, luogo di passaggio e continuità per un’altra vita. Questa bellissima metafora ci porta alla mostra, alle mostre, che la famiglia Borromeo con i suoi inviti rinnova a fare ogni anno in questo luogo dalle mura fortificate, i bulbi che restano, e i fiori che rinascono ad ogni stagione, ogni nuova mostra. La vita alla Rocca di Angera è come un fiore che si rinnova e deperisce ad ogni stagione, in un ciclo che ha il suo perno, il suo principio di continuità nascosto nella terra in cui si trova, nella cultura di chi lo conserva e lo tramanda da generazioni, da secoli. Il pensiero che anima questo luogo è diventato un esercizio spirituale, un modo di esistere, un’accettazione della propria natura di fiore, che nasce, muore e rinasce ad ogni stagione”.