È la voce del desiderio – di vita, di libertà, di appartenenza, di espressione – a risuonare tenace e potente in ciascuna delle opere esposte nella collettiva “Voci dall’abisso. Quattro artiste iraniane a Bologna”: risposta creativa urgente e indifferibile ai tragici eventi degli ultimi mesi in Iran, ma anche gesto di ribellione ad un’oppressione che ha radici lontane.
Dal 2 al 5 febbraio, in concomitanza con ArteFiera 2023, la mostra a cura di Marco Baldassari, in programma a Palazzo Fava, il Palazzo delle esposizioni di Genus Bononiae (via Manzoni, 2, Bologna) presenta il lavoro di Pegah Pasyar, Reyhaneh Alikhani, Golzar Sanganian e Khorshid Pouyan, quattro giovani artiste iraniane i cui percorsi si sono intrecciati all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove si sono diplomate, nella città dove, esuli loro malgrado, hanno trovato la possibilità di portare avanti la propria ricerca.
Nella collettiva di Palazzo Fava emergono con forza le singole personalità delle artiste, declinate in lavori condotti con le più diverse forme, dalla pittura a olio alla scultura, dalla grafica alle installazioni, dal riuso dei materiali al recupero dell’antichissima tecnica di tessitura kilim.
La cultura persiana è fortemente presente nelle opere, sia nelle modalità tecniche che nella poetica che ad esse sottende, fortemente pervasa da sentimenti di libertà, amore, sofferenza, appartenenza.
Nell’opera di Pegah Pasyar il richiamo alla libertà è rappresentato simbolicamente dagli specchi che fanno da base alle sculture realizzate in cartapesta e creta, la cui immagine viene riflessa, simbolicamente, all’infinito: il bianco nasce dalla sintesi di tutti i colori dello spettro, così come la loro forma è sintesi della figura umana. La memoria visiva corre alla scultura del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino a Napoli e alla purezza delle forme di Constantin Brancusi. L’infinito torna nelle serie di piccole opere ad olio su carta Skyning e Routing, un omaggio ai cieli di Constable, anch’esse con la dilatazione dello spazio tra pittura e specchi. Le figure in terracotta dorata rappresentano il corpo nell’esperienza di essere donna. Infine i delicati disegni di nudi con la tecnica del monoprint su vecchie carte dialogano con le sculture in oro, evocando libere forme nelle relazioni tra i corpi.
Reyhaneh Alikhani recupera l’antichissima tecnica dei tappeti kilim, risalente a mille anni prima di Cristo, per attualizzarne il messaggio, utilizzando strumenti di lavoro contemporanei e rimandi all’arte del ‘900, in un lento ricamare su forme precostituite che trasforma gli oggetti utilizzati, come nella serie Segni di Resistenza, in cui si nega a strumenti storici da taglio la loro funzionalità con un intervento tessile che neutralizza le lame e restituisce allo sguardo tracce diverse di memoria. Nella serie Trame le seghe da strumento distruttivo diventano telai della tessitura in lana, che rappresenta nel suo ordito l’albero del melograno, simbolo della vita. La verginità evocata nella coppia Trame Pure mette a confronto la cultura repressiva in oriente con quella democratica dell’occidente.
La natura è il motore della creazione del lavoro di Golzar Sanganian, con le forme in essa reperite che trovano nuova vita nelle sue composizioni. L’installazione The road to freedom è, contrariamente a quanto suggerito dal titolo, una via senza uscita: il modellino di auto diventa, metaforicamente, la vita che non trova sbocchi da nessuna parte, rimanendo chiusa nel suo percorso. Nella serie Emerse le alghe trovano una nuova vita in un nuovo spazio, dopo che il mare le ha rifiutate, mentre Naufragio simboleggia la resistenza del corpo ferito, la capacità di trovare nuova forza e resistenza dopo una caduta. Gli elementi naturali rappresentano, per l’artista, il richiamo alla terra d’origine, che porta con sé la lacerante realtà di un legame negato.
Khorsid Pouyan infine lavora sulle figure umane, attraverso le quali l’artista crea una sintonia con l’ambiente inserendo elementi percettivi che variano spostando il punto d’osservazione. La rappresentazione del vuoto è l’elemento principale della sua ricerca: nell’opera Oltre al nulla Pouyan crea l’illusione di un’apertura nella parete che, smaterializzandosi, ci proietta nel vuoto spazio aperto ed eterno di un cielo azzurro senza inizio né fine, aperture che ricordano l’arte di Sol Lewitt. Anche in Perdere pezzi la ricerca si concentra tra il vuoto, che acquisisce importanza, e il pieno del corpo femminile. Le grandi figure di nudo della serie In_quiete, immerse nel candore della lana, sono alla ricerca di un equilibrio in mezzo alle distrazioni quotidiane.
“L’arte è un mezzo di espressione e di comunicazione connaturato all’essere umano. Ancora più per queste artiste il desiderio di comunicare diventa urgenza – commenta Filippo Sassoli de’ Bianchi, Presidente di Genus Bononiae. – Abbiamo assistito negli ultimi mesi a numerosissime manifestazioni, happening, performance che hanno voluto portare l’attenzione sulla situazione in Iran, ma questa è la prima volta che l’Italia ospita una collettiva di artiste iraniane, e come istituzione culturale siamo felici di dare loro voce e spazio. Crediamo sia un messaggio importante e da non dimenticare anche e soprattutto nei giorni di ArteFiera, durante i quali Bologna diventa capitale dell’arte contemporanea”.